Ci vuole il fegato, ci vuole il cuore, ci vogliono spalle forti, come quella che una volta si è lussato per ribattere a rete un rigore respinto dal portiere. Era a Morro D’Oro, vincemmo 2 a 1. Questa è altre cose ricorderemo di Alessio Rosa, il professionista che volle tornare dilettante e non per sbaglio, ma per dedicarsi alla sua famiglia; non nel mezzo del cammin della sua vita di calciatore, ma in piena corsa, a 27 anni, nel mezzo del girone di andata di un campionato di Seconda Divisione quando decise di non dividersi più tra pallone e casa, anche se Chieti era diventata per lui la sua seconda casa, la casa del capitano. Ripassiamo un po’ di storia.
Alessio Rosa firma per il Chieti proprio nel mese di novembre del 2008, precisamente il giorno 20. È il quarto acquisto dopo Raimondo Catalano, Simone Marini e Davide Favaro nella campagna di riparazione di un Chieti davvero scassato, partito per vincere a mani basse il campionato di Serie D e impelagato invece nei bassifondi della classifica. Gente arrivata con la fama di grandi firme che invece la penna non sa tenerla neppure in mano. A guidare le operazioni c’è l’avvocato, che dopo Gianni Agnelli – almeno dalle nostre parti – vuol dire Enzo Nucifora. Ad aprire il portafogli c’è il triumvirato formato da Marcotullio, La Rovere e Bellia prima che quest’ultimo diventi il monarca assoluto. Da un paio di giornate il nuovo allenatore è Pino Giusto subentrato a Rinaldo Cifaldi. Il nuovo attaccante proveniente dalla Recanatese si presenta così: «È un grande onore essere stato contattato da una squadra del blasone del Chieti. Proprio per questo non ho avuto nessun tipo di ripensamento e ho accettato la proposta con molto entusiasmo. Non capita tutti i giorni di giocare in una piazza così importante. Ho deciso di iniziare questa nuova stimolante avventura – dichiara ancora ad Abruzzocalciodilettanti – perché sono convinto che il Chieti possa tirarsi fuori dai bassifondi della classifica. Ci sono tutti i presupposti per farlo: una società ed una piazza di questo calibro non meritano le attuali posizioni».
Rosa non è per la prima volta in Abruzzo. È già stato a Sant’Egidio e a Città Sant’Angelo. «Vorrei salutare anch'io la squadra innanzitutto, la società e i tifosi. Me ne vado senza rancore anzi, ho avuto la fortuna di lavorare con una società serissima e con una squadra meravigliosa sia dal punto di vista umano che tecnico. Nonostante sono stato da voi per 2 mesi spero di essere stato apprezzato più come persona che come giocatore. Il giocatore passa, la persona rimane per sempre. Ho preso questa decisione a malincuore ma mi è stata data la possibilità di giocare con continuità e a 23 anni è importante. Un grosso in bocca al lupo a tutti squadra, staff, società e tifosi». Così scriveva Alessio Rosa rivolgendosi all’ambiente che gravita intorno alla Renato Curi Angolana. È il 10 novembre 2007. Insomma, sarà un caso, ma il buon Alessio le sue decisioni importanti le ha prese tutte in questo mese e non è uno che spreca le parole.
Il giocatore passa, la persona rimane per sempre, ma lui a Chieti riesce a farsi apprezzare per entrambe le cose, perché ha una faccia e un sorriso da sguazzone, ma la mette dentro e, anche quando la rete rimane ferma, la sua maglia numero 9 è madida di sudore. Ed è dura per lui sentirselo gelare addosso quando, dopo un inizio folgorante nella scorsa stagione, non riesce più a fare il suo inchino. La sfortuna sembra accerchiarlo: davanti non vede più la porta, dietro la sua schiena lo perseguita. Se il Chieti non segna – si dice – è anche per colpa sua. Lui si danna l’anima in campo, qualcuno dice che è pronto ad andare via, intanto si deve sedere qualche volta in panchina. All’orizzonte c’è un Simone Miani in arrivo, di fianco c’è un altro attaccante come Buttazzoni che più diverso da lui non è, in tutto e per tutto. Lui taglio corto, gladiatorio nell’affrontare l’avversario, votato ad attaccare lo spazio per difendere la palla ed aprire varchi per gli inserimenti: sembra non aspetti altro di sfondare la rete o di aiutare un compagno a segnare, esultando con gli altri e correndo sotto la curva. Lui ha parole di eterno amore per Chieti e la Curva Volpi, ha un saluto per tutti, definisce la tessera del tifoso «una boiata pazzesca» ed è musica per gli ultras. L’altro ha il cerchio per fermare i capelli, va giù ogni volta che lo toccano, abilissimo nello smarcarsi: si fa trovare al momento giusto e fa gol, ma non abbozza neppure un sorriso e quando un compagno segna ha già girato i tacchetti per tornare intorno al cerchio di centrocampo. Alzi la mano chi ha sentito mai la sua voce, chi può ricordarlo rimanere nella stessa squadra per più di un anno. Lui è lo spogliatoio, dove tutte le maglie sono neroverdi. Per l’altro lo spogliatoio è semplicemente il posto dove la maglia si indossa o si toglie, di qualsiasi colore esso sia. Professionista dunque, ma guidato fondamentalmente dal denaro, come lo sono del resto Genchi e Visciglia, altri illustri (e bravi) compagni di reparto dell’ascolano.
E a proposito di spogliatoio, qualche ora dopo i famosi fatti di Canistro, un Alessio sotto shock scrive sulla sua pagina Facebook: «E ora dove andrà?». Rosa rimane e il Chieti vince il campionato di Serie D. La squadra gira le spalle alla Curva Volpi, ma non viceversa. Eppure la voglia di vincere è la stessa per la squadra e i tifosi, ecco perché a Montecchio esplode la gioia. Il vero amore tra lui e il Chieti forse nasce proprio in quel freddo giorno nella Val Roveto. Come spesso accade nelle migliori coppie, un torto, un litigio che aprono una frattura apparentemente insanabile in realtà saldano un rapporto e lo rendono più forte di qualsiasi firma, di qualsiasi ingaggio. Alessio Rosa – lo sappiamo – ha avuto più di un’occasione per andarsene, guadagnare di più e farlo più comodamente vicino casa, ma ha preferito rimanere a Chieti, accettando di sacrificare il suo ingaggio per continuare a vestire la casacca neroverde e prendersi la responsabilità di esserne il capitano, il garante di un passato che avrebbe potuto portarsi a casa come trofeo della sua carriera e che invece ha rimesso in gioco per condurre un gruppo giovane e pieno di potenzialità. I progetti ambiziosi, le cose difficili hanno bisogno di orgoglio, capacità di sacrificio, franchezza verso gli altri e se stessi e anche di un altruismo speciale. Tutte doti che Alessio ha dimostrato in più occasioni.
Orgoglio? Ne ha tanto. Una volta, dopo una sostituzione, è davvero nero. «Peccato, potevo segnare se fossi rimasto ancora in campo – mi dice – ormai i difensori non ce la facevano più a starmi dietro». Probabilmente ha ragione, ma Vivarini lo fa accomodare. Dopo uno dei tanti pareggi in casa, lo vado a salutare all’uscita dello spogliatoio e gli dico: «Mi sembri un po’ stanco ultimamente…». Mi fa un’occhiataccia e girandosi offeso mi risponde: «Ma stai scherzando?!? È stata una battaglia!» Di botte ne ha prese, l’astinenza poi per un attaccante è frustrante e scopre ancora di più i suoi nervi. Capacità di sacrificio? Da vendere! Oltre al caparbio gol di Morro d'Oro e alle panchine, lo ricordo a Centobuchi difendere a pochi minuti dalla fine un pallone d’oro per Danilo Scibilia che piazza il 2-1. Il siparietto del folletto siciliano nel carretto trainato dal bomber, che chiedono di fare benzina alla stazione di servizio sull’autostrada di ritorno da Montecchio, è una delle immagini più emblematiche, che dipingono al meglio un gruppo nel quale si mescolavano impegno e divertimento. Franchezza? Alessio è stato osannato, ma anche attaccato; qualche volta il suo tasso tecnico è stato giudicato inadeguato alla categoria, ma lui ha sempre risposto con sobrietà facendo parlare il campo e, a messaggio di saluto da parte di uno degli amministratori di TifoChieti, ha ringraziato per il sostegno ricevuto, pur sapendo di essere stato criticato sul nostro forum. Anche in questo ha dimostrato tutta la sua positività trasformando le critiche in stimoli, rispettando i tifosi e mettendosi a disposizione della squadra che lascia proprio mentre sta raccogliendo i migliori risultati dimostrando di potersela giocare alla pari con le migliori.
E proprio quando l’attaccante è tornato a gonfiare la rete. Nella doppietta contro il Melfi c’è tutto l’Alessio Rosa che conosciamo: una palombella da fuori area frutto della sua caparbietà e fantasia, e un tap in su passaggio di Gammone, ringraziato con una smorfia che il capitano probabilmente usa fare a sua figlia. Di fronte alle telecamere nel dopopartita non c’è spazio per accollarsi i meriti di una vittoria, ma solo elogi per la squadra che sta già meditando di lasciare. Potrebbe fare l’asso pigliatutto e invece divide tutto con i suoi compagni. È questo l’altruismo speciale che solo un vero capitano può avere, il senso di responsabilità di un vero padre di famiglia che ha fatto le sue scelte. Credo che, se solo avesse voluto approfittare della situazione, sarebbe rimasto e avrebbe atteso la fine della stagione con la pace nel cuore e invece non ha voluto rimandare quello che ritiene necessario.
Queste scelte, come uomo e come padre non posso che guardarle con grande rispetto, ma credo che vi sia altro da rimarcare. È che Alessio Rosa a Chieti non lascia un ricordo, ma una presenza che vale più delle 83 collezionate con la maglia neroverde ed è più decisivo di uno tra i 33 gol – qualcuno gliene assegna anche 35 – realizzati. «Chieti è e resterà per sempre la mia serie A. La società ha cercato di convincermi a restare, ma una volta comprese le mie ragioni ha dimostrato grande disponibilità. Li ringrazio di cuore. Saluto i tifosi con grandissimo affetto: l’esperienza più importante della mia vita calcistica non la dimenticherò tanto facilmente». Sono parole che dimostrano quanto possa valere la maglia che è stata di Grosso, Quagliarella e Chiesa in un mondo dove le casacche e i valori non contano più.
Il calciatore passa, ma l’uomo resta. Giorni fa gli ho chiesto se era vero che, secondo quanto riportato da un articolo del Resto del Carlino, sarebbe potuto passare alla Sambenedettese. Mi ha risposto con una domanda: «E secondo te io che sono di Ascoli potrei andare a giocare a San Benedetto?» Eh, caro Alessio, anche io la penso come te. Quanto vorrei che a Chieti valessero le stesse regole e invece devi essere tu a ricordarci che essere teatini dovrebbe significare escludere a priori determinate contaminazioni. In un mondo dove le bandiere non esistono più, c’è qualcuno che ci dimostra come si porta una bandiera. Con coerenza e senza lasciare che scolorisca al candeggio del compromesso e della convenienza, ma fedele a una passione, un sentimento autentico che gli sportivi teatini hanno saputo capire e contraccambiare. Nel calcio possono ancora succedere storie come queste. La trasmissione “La domenica sportiva” le racconterà intervistando Alessio, il quale – ne siamo sicuri – dirà di sé, della sua famiglia, del suo amore per il calcio e infine di Chieti e dei suoi tifosi. Di noi.
L’altro giorno, ho detto alla mia compagna: «Lo sai che il capitano del Chieti lascia il calcio professionistico per dedicarsi alla famiglia?» E lei mi ha risposto: «Chi? Quello che ha messo l’ecografia della figlia su Facebook e le ha fatto la maglia neroverde con il nome?». Detto da una donna di uno che canta al proprio figlio “Alé, i neroverdi alè” come ninna nanna. Quello che stupisce è che il coraggio da capitano del capitano sia arrivato dove era difficile immaginare. Un pallone calciato fuori dal campo che, rimbalzo dopo rimbalzo, raggiunge luoghi dove non era mai stato, dove non si gioca la partita della domenica, ma quella della vita. Non più quella del calciatore, ma del padre di famiglia dove la retorica conta poco o nulla, molto di più invece tutto quello che hai dimostrato dentro e fuori il campo, da giocatore e da uomo. Caro Alessio, la mia compagna ti ricorderà come “quello dell’ecografia”, io invece ti ricorderò per quell’eurogol, quella palombella Rosa con la quale hai scavalcato il portiere del Melfi, l’emblema del coraggio con il quale hai sorpreso tutti noi tifosi, superando tutte le convenzioni e i luoghi comuni. Personalmente, non mi rimane che ringraziarti e augurarti in bocca al lupo. Con un inchino.